Attorno all’inizio degli anni ’80 un’insolita definizione musicale ha iniziato a circolare nelle notti della Riviera Adriatica: Afro. DJ Pery fu un perno centrale di questa scena, legato ad una discoteca ormai leggendaria, il Melody Mecca, o più semplicemente la Mecca. Lo abbiamo incontrato da quelle parti nel 2017 in occasione di LOOSE, il festival organizzato da Club Adriatico1, che rappresenta una possibile evoluzione del continuum rivierasco iniziato ormai quarant’anni fa.
Palm Wine: Iniziamo da un po’ di storia.
DJ Pery: Storia… si va indietro parecchio. Tutto inizia nel 1979 con la discoteca New York di Miramare di Rimini, nata sulle spoglie della Locanda del Lupo, famosa per i live negli anni ’70. Quella che poi diventò il Cellophane negli anni ’90. Lì ho fatto un po’ tutti i ruoli: dal cambusiere al barista, fino ad inserirmi come secondo DJ al fianco di Iano Betti.
PW: In questa fase suonavi i tuoi dischi o era il locale che li forniva?
P: A quei tempi era il locale a comprare i dischi, o meglio era il DJ che andava a comprare i dischi per conto del gestore. Pian piano l’altro DJ ha notato che non andavo a invadere il suo territorio quindi mi metteva da parte i dischi che comprava al pomeriggio e mi chiedeva di suonarli, erano le novità – li ascoltava mentre li usavo e metteva in disparte quelli che gli piacevano. Era un suo modo per lasciarmi uno spazio di quaranta minuti all’inizio e venti minuti o mezz’ora a metà serata per riascoltarsi quello che aveva acquistato.
La mia storia parte da lì. Quella discoteca era destinata per motivi di locazione a chiudere. Lo dico con certezza perché è stata costruita e aperta da mio nonno e gestita da mio padre fino agli anni ’80. Era una discoteca che faceva dalle tre alle quattro mila persone nel centro di Miramare e ne rimanevano fuori parecchie. Già veniva poco tollerata come discoteca commerciale, quindi puoi immaginare per quella che era la comunità di quella zona avere un posto così alternativo… e il traffico e la gestione in generale della situazione. Lo spirito era post-fricchetone anni ’60-70, con i residui rimasti.
Una volta chiuso, Andrea Brighenti, (poi compagno di mia sorella e gestore di un autosalone, quindi con zero esperienza nel settore discoteca) – che poi fu colui che aprì la Mecca – mi disse “che ne dici se apro un locale a Covignano (colline Riminesi) dove possiamo proporre questo tipo di musica?” ovviamente accettai la proposta al volo. Lì, essendo solo, impostai da zero musicalmente il locale.
PW: In qualche modo facevi dunque la direzione artistica?
P: Sì, per quanto riguarda la parte musicale. Successivamente ho fatto una vera e propria direzione artistica, ovvero invitavo altri guest – però i primi due/tre anni suonavo solo io. Facevo la stagione estiva, lavorando da giugno a settembre tutte le sere, iniziando alle 21.30/22 e finendo alle 2.30 di notte, gli orari erano diversi rispetto ad ora. L’ho impostato musicalmente dunque, inizialmente con il materiale che mi portavo appresso dal New York, però non avendo più la possibilità di ascoltare altri DJ perchè ero impegnato lì – ovviamente ti lasci influenzare da quello che ascolti –, ho preso la mia strada. Da quella che era la musica disco nel suo passaggio al funky ho intrapreso una via orientale, elettronica, brasiliana, tribale, in pratica il discorso “afro”.
Noi (io e pochi altri DJ) abbiamo creato un contesto che prendeva dall’elettronica, dal reggae, dalla bossa nova e da tanti altri generi disparati – in pratica una forma di world music, anche se ai tempi non era usuale definirla in quel modo. In base al periodo storico abbiamo sempre usato il filone migliore, quello che portava novità.
PW: In quel periodo come raccoglievi i dischi? Ad esempio se volevi suonare musica brasiliana la trovavi nei negozi di dischi locali oppure era una ricerca più complessa?
P: A Rimini c’era il Disco Più che è stato uno dei primi negozi in Romagna ad importare dischi dall’estero; il gestore aveva un occhio di riguardo per me. Abitando a Rimini stavo in negozio da mattino a sera e ascoltavo tutti gli “1x” – ovvero quelli di cui arrivava una copia per tipo e che poi riordinava in base al riscontro e alla richiesta dei DJ. Io me li ascoltavo tutti. Se alcune cose non tornavano in negozio perché con poche stampe e già distribuite dall’importatore, quasi sempre la copia di ascolto restava a me. Ero nel locale del momento e il gestore del negozio sapeva che avevo tanto ascolto.
Nel nostro genere tendenzialmente usavamo i lati B di un lato A già poco famoso e questo lato B poteva essere un pezzo elettronico che da 45 giri veniva suonato a 33, quindi un brano velocissimo che magari suonavano al Cocoricò negli anni ’90 per noi diventava una cosa elettronica anni sullo stile anni ’80. Da lì è partita la mia escalation, spaziando in tutta la musica che mi sembrava alternativa.
Penso di esser stato uno dei primi ad aver suonato in discoteca League of Nations dei Simple Minds, poi gli Human League, gli Art of Noise, i Talking Heads… quel brano ho iniziato a suonarlo in un contesto che il pubblico ha catalogato come afro. Però in realtà faceva parte della new wave ed elettronica del periodo. Si suonava di tutto. È stato il pubblico ad utilizzare la definizione afro, principalmente perchè a fine anni ’70 ed inizio ’80 si è iniziato a suonare Airto Moreira e Fela Kuti per poi spaziare su una ricerca più ampia sulla musica africana e non solo.
PW: Quindi se ad esempio suonavi un pezzo di Fela, quello successivo cosa poteva essere? Un altro brano afrobeat più o meno di quel periodo oppure altro?
P: Tendenzialmente sì, sempre con un filo logico. Io sono sempre stato uno di quelli che non fanno il meglio del peggio. Se si presenta un DJ che mi dice “io metto queste cose perchè è quello che vuole sentire e ballare la gente” io immediatamente lo catalogo in una fascia di DJ di serie B, forse anche C, che al di là del genere che fanno non potrà mai essere considerato tale. La personalità è importante in questo mestiere – o se preferiamo forma artistica. La musica è una questione di emozioni, di feeling che si instaura tra pubblico e DJ, uno scambio del momento che stai vivendo.
Quindi io facevo sempre una scelta. E alcune scelte arrivavano inaspettatamente: un giorno sono andato al Disco Più, ho sentito per caso i Monsoon – che era una formazione indiana, la cui cantante, Sheila Chandra, ha fatto tante cose con i Transglobal Underground e nell’elettronica dei ’90 – e me ne sono innamorato. Non li usava nessuno. Il primo pezzo dei Monsoon salito alla ribalta – Ever So Lonely, l’ho usato come sigla della Mecca il terzo anno, 1983.
PW: In che senso sigla?
P: C’era una sigla di apertura della serata. Il primo anno usavo Badia dei Weather Report, un gruppo che faceva jazz rock… una cosa che sembra improponibile se ci pensi oggi. In più Badia era lentissima, però ci stava, ci stava nella Mecca; è il classico pezzo desertico, da Mecca.
PW: Quando dici “ci stava nella Mecca” ti riferisci anche alla sua architettura?
P: Esatto. Quando sono entrato per vedere il locale per la prima volta con il titolare gli dissi “ma il locale dov’è, scusi?” In pratica era un’area aperta, con un bar di trenta metri per venti, che era l’unica area coperta. Lui abusivamente coprì il locale con un tendone, con una struttura a mo’ di mecca.
Il locale esisteva già negli anni 60; esisteva già questa mecca che lui ribattezzò Melody Mecca, precedentemente però era un night che faceva Patty Pravo, Califano… ovvero degli importanti artisti italiani di allora. Ed era un night per facoltosi, gente da bottiglia, da party con una certa spesa. Quel locale poi chiuse e rimase vuoto per vari anni, aveva la piscina che il proprietario ha sempre tenuto chiusa al pubblico per evitare problemi, però c’era un bellissimo giardino e il locale nella sua completezza teneva più di quattromila persone. Veniva vissuto sia dentro che fuori, soprattutto i primi anni. C’era tanta gente che arrivava nel parcheggio e sentiva la musica senza nemmeno entrare.
La struttura era molto particolare: il primo anno l’arredamento era composto da qualche sedia di bambù con cuscini e poi c’erano dei labirinti in cemento dove la gente poteva sedersi. Questo tendone… era molto spartana ma il clima che ho trovato lì dentro non l’ho mai incontrato in nessun’altra discoteca. Non solo per una stagione o per quattro o cinque stagioni come hanno fatto altri locali importanti. Quel clima l’ho vissuto dall’81 al ’99. Considera che ha chiuso nel 2000. L’ho vissuta man mano insieme a tutte le generazioni che cambiavano, con conseguente cambiamento musicale, restando sempre all’interno di un concetto “etnico”.
PW: Ci sono state annate difficili?
P: Musicalmente parlando un periodo critico è arrivato con la diffusione della house. Siamo passati dal funky attraverso la afro, il reggae, il brasiliano – che non era un brasiliano samba da festa, era un brasiliano alla Jorge Ben, Gilberto Gil, Baden Pawel o Paulinho Da Costa. Bossa nova e jazz, in pratica – ma a un certo punto per noi non usciva più niente. La house attirava le nuove generazioni e il pubblico che avevamo stava finendo il suo corso naturale. Ci mancava il ricambio.
Fortunatamente il titolare del locale, pur non facendo più le tre-quattromila persone, ma galleggiando da ottocento a millecinquecento, ha deciso comunque di continuare la sua storia. In particolare dall’87 all’89 per noi è stata molto dura; cercavamo di adattarci prendendo dischi nuovi, i breakbeat di tutti i pezzi house che viravano verso il funk, con i campioni di James Brown, Ofra Haza e cose simili – tirammo fuori un po’ di vecchio funky che avevamo accantonato da tempo.
Poi un giorno, magicamente, all’apertura di pasqua della stagione 1989/90, ci ritroviamo il locale pieno zeppo di nuovi ragazzi, un’ondata inaspettata. Ricordo che ci siamo guardati tra DJ e domandati: “ma questi da dove arrivano?”
Lì è iniziata la seconda vita del Melody.
PW: Da quando hai iniziato a condividere la serata alla Mecca con DJ Meo?
P: Nell’83 ha iniziato a partecipare a qualche serata come guest e due settimane di agosto fisso. Una volta al mese circa girava un guest: l’Ebreo, Mozart, giusto per citarne un paio, e andando avanti negli anni si sono aggregati altri DJ.
PW: Solo artisti locali o venivano anche dall’estero?
P: Dall’estero veniva occasionalmente, però già siamo negli anni ’90, Stefan Egger, un DJ austriaco. Tieni presente che questo sistema musicale è nato qui, l’abbiamo creato noi. Quello che succedeva all’estero, ad esempio con Egger stesso, è solo una conseguenza della nostra storia. Storia che non abbiamo importato come solitamente noi italiani siamo abituati a fare. Io ero alla Mecca, Mozart alla Baia, Rubens e Meo al Les Cigales, Ebreo e Spranga al Chicago, Loda al Typhoon, Daniele Baldelli al Cosmic, sul lago di Garda che era focalizzato maggiormente sull’elettronica, ma anche lui metteva dischi da 33 a 45 e usava tecniche molto particolari. Si suonavano cose che in altri posti la gente se le sognava. Era una vera innovazione musicale.
Oggi mi pare manchi un’identità e un pubblico appassionato, che segua un movimento preciso. Se andavi in una discoteca come Le Indie, c’era la commerciale in una sala ed era ben definita, andavi all’Energy idem: commerciale in una, house nell’altra; il Cocoricò tempio della techno, o al Velvet, che era il seguito dello Slego, un locale di culto per il rock in Italia – gli ultimi anni per far cassa doveva fare una sera rock moderno, una sera un remember di quando c’era Thomas Balsamini, che era stato il fondatore del locale, una sera l’“Elettro Velvet” per la musica elettronica, una sera un residuato di afro se così possiamo definirla visto che ormai nella afro si usa il reggaeton, quello dei balli di gruppo per turisti al mare e così via…
È tuttora così per molti locali, anche storici: il Mamamia di Senigallia dove ho fatto il resident per tanti anni, fino a due anni fa, lo stesso Miami di Jesi. Non è più epoca per avere un locale continuativo sullo stesso genere. Un sabato fa rewind anni ’90, un sabato la festa con gli Snap e la Rettore, oppure la serata house alternativa, magari chiamando Cirillo per riesumare quello che faceva al Memorabilia o al Cocoricò – però ripeto, non c’è più una discoteca con un’identità ben definita.
PW: Prima hai menzionato i Talking Heads, David Byrne è stato uno tra i primi operatori culturali ad interessarsi a musiche latine e africane.
P: Sì sì, lui e Brian Ferry hanno influenzato tutta la new wave, pensa a David Sylvian, la sua voce era fortemente influenzata dal modo di cantare di Byrne e Bryan Ferry.
Mi pare fosse il 1989: vado a vedere un concerto dei Talking Heads, anzi era già Byrne da solo, che aveva appena pubblicato Rei Momo, un disco latino con l’aggiunta di suoni elettronici. Il concerto era a Bologna.
All’inizio c’è una cantante con la sua band. Chiedo immediatamente all’amico che era con me “ma questi chi sono?”. “Lei è Margareth Menezes” – “e cosa fanno” gli chiedo, “è un gruppo brasiliano prodotto da David Byrne, sconosciuto…”. Il giorno dopo vado alla Dimar [Dischi, ndr] e compro immediatamente il disco di Margareth Menezes e all’interno ho trovato due canzoni che hanno costituito la mia seconda svolta brasiliana, negli anni ’90.
PW: Questo è molto interessante.
P: In pratica negli anni ’80 andava quel brasiliano di cui ti parlavo prima, bossa nova e derivati. Nel ’90 invece ha iniziato a diffondersi il ragamuffin. Sai, le musiche ritornano di continuo, anche se leggermente modificate. In pratica da quel concerto in poi ho iniziato ad interessarmi al samba reggae, quindi strutturato diversamente da quello che era il brasiliano precedente.
Inoltre in quel periodo mio padre si trasferì in Brasile per aprire un’attività e tornava un paio di volte l’anno, quindi mi facevo portare un po’ di novità discografiche. Da lì ho conosciuto gli Olodum, i Terra Samba i Timbalada e mi sono costruito un filone su cui ho insistito per anni. Cose che oggi non posso più ascoltare per quanto poi siano state sfruttate da molti DJ.
PW: Tu sei mai stato in Brasile?
P: No. Mai andato. Pur avendo una casa a disposizione, pur usando tutte le musiche brasiliane esistenti e di vari generi non sono mai andato [ride, ndr].
PW: E sei mai stato in altri luoghi da cui provenivano le musiche che suonavi?
P: Ho fatto il giro completo del Marocco e sono stato in diversi paesi arabi. Ho visitato India, Nepal, Birmania – insomma più vicino al continente asiatico e sub-indiano. Quando si parla di afro si pensa sempre a Fela o alla Nigeria, a Manu Dibango – quando in realtà c’è un settore afro nord africano non indifferrente. Pensa a Cheb Khaled o Cheb Mami, a Rachid Taha. Tutto quello che ha un suono particolare, e qui includo anche il sitar indiano, o le percussioni tablas, o la darabuka – per me può essere considerato afro, chiaramente geograficamente non lo è, ma io lo considero tale.
Attualmente trasmetto per Radio Istanbul una volta al mese e lì seguo invece un percorso più specifico: dal dub (ma un dub con suoni indie e magrebini) e li mischio con cose elettroniche che restano etniche nei suoni, nelle voci o nelle armonie.
PW: Ad esempio? Ti ricordi qualche nome?
P: Alcune cose di Gaudi, Nusrat Fateh Ali Khan remixato, Adham Shaik, Salhe, Banco de Gaia…
PW: Qualcosa dalla Giamaica?
P: Non proprio. Conosci gli African Head Charge? Che fanno dub elettronico.
PW: Certo.
P: Ecco, la base di fondo è quella, però con i suoni etnici. Ad esempio i Laya Project, che fanno pezzi dub con voci prese dal mondo ed escono cose davvero potenti. Anche se la ritmica è lenta.
PW: Quindi afro non identifica realmente nessun luogo, giusto?
P: No, è un’idea globale della musica. Io ho usato molti autori africani ma considera che è una percentuale bassa rispetto al resto della musica che ho suonato nella mia carriera.
PW: Non voglio usare la parola esotismo, però prima parlavi di oriente… c’era in quel periodo la tendenza ad immaginarsi un mondo lontano, che non si conosceva e che quindi veniva un po’ idealizzato?
P: Io ho sempre seguito il mio istinto. E quel che senti dentro è soprattutto influenzato dalla tua vita in quel particolare momento. A livello spirituale, sentimentale, le cose sono tutte legate tra loro. Io ho sempre avuto un debole per quei suoni indiani, per quelle voci che più che canti sono lamenti, per quella piega malinconica.
Ad esempio Caravan II Baghdad, ovvero è un pezzo che usavo alla Mecca già negli anni ’90, un brano maghrebino con suoni moderni, questi violini struggenti… si pensa spesso che la musica debba comunicare allegria: non è così. La musica deve saper restituire l’atmosfera che stai vivendo. Ballare non significa sempre far festa, come dimostrano molti canti e rituali popolari.
Un’altra cosa afro elettronica che avevo scoperto era un artista olandese, per quei tempi considerato sperimentale, ne trovai una copia, il brano si chiama Cor Corora, me lo chiese anche Ricky Montanari, uno dei dj storici dell’Echoes di Misano per farne un remix house.
Ho fatto anche degli errori di valutazione nelle scelte musicali, ma devo dire che non ho mai trovato un compromesso con il pubblico. Il pubblico mi ha sempre seguito, sono stato fortunato.
PW: Voglio farti una domanda relativa allo stile, all’abbigliamento e al lifestyle nel primo periodo della Mecca.
P: Come accennavo prima c’erano i residui dei veri figli dei fiori. Quindi la moda del pantalone a campana e il capello lungo. Poi nell’87 con l’arrivo della house quel tipo di pubblico è sparito. Forse sarebbe sparito anche senza cambiamento musicale, per un normale corso della vita. E il pubblico nuovo potevi inserirlo ovunque. La Mecca in inverno era aperta due sabati al mese alternati. C’era gente che faceva un sabato da noi e l’altro al Cocco, giusto per rendere l’idea.
PW: Mi parli delle leggendarie cassette della Mecca?
P: Era molto semplice: certi brani li avevano solo i DJ e per averli ed ascoltarli fuori dalla discoteca l’unico modo era comprare la cassettina durante la serata. Considera che c’era gente che partiva da Brescia e arrivava alla Mecca per comprarsela, alcune sono vere reliquie.
PW: Quanti mixtape hai fatto della Mecca?
P: Mi sembra 184 in totale quelle numerate, anche se in realtà della Mecca sono 138, più qualche live fuori numerazione. Il prosieguo sono state le disco a seguire, quelle che io amo chiamare le mie altre case.
PW: E quante copie venivano stampate?
P: Quante ne capitava, non c’era una regola. Alcuni sabati ho venduto più di 250 cassette.
PW: E come funzionava? Le registravi dal vivo?
P: Le prime 28 cassette sono tutte registrate dal vivo. Chiaramente cercavo di registrarle nelle serate del martedì o mercoledì. La Mecca era aperta tutte le sere nei mesi estivi, suonavo ogni sera, quindi cercavo di mantenere un set però non potevo lobotomizzarmi, facevo quindi una cassetta al sabato e un’altra durante la settimana perché il contenuto fosse diverso. Il sabato c’erano tremila persone, il lunedì centocinquanta, il martedì duecentoventi, mercoledì quattrocento e così via. Considera però che un lunedì di giugno, con magari sessanta persone presenti, almeno quaranta cassette le vendevo.
PW: E le copertine?
P: Molte le facevo a mano. Poi in serigrafia, lasciando uno spazio per il numero che mettevo ad ogni uscita di cassetta nuova, circa a cadenza mensile. Ogni periodo ha la sua copertina, quelle classiche sono con l’immagine della Mecca, successivamente nei primi anni ’90 in base ai flyer che faceva la Mecca (che erano stagionali) costruivo le copertine.
PW: La Mecca aveva un suo grafico?
P: Si, la Mecca aveva un suo grafico ma io mi appoggiavo ad un amico. Comunque il gestore mi chiedeva consigli, anche sulle serate speciali e sul come strutturarle sia visivamente che nel contenuto. Non è che potevamo sempre ripetere uno speciale su Bob Marley, o sui Doors, poi le idee finiscono e si cade nella monotonia e banalità; quindi ci inventavamo il compleanno della Mecca, il raduno per il quale chiami quattro DJ, insomma fare programmazione per tutte le sere non era affatto semplice. E considera anche che il locale non era sul mare, i mezzi pubblici per arrivarci facevano fatica già a passarci di giorno.
Quando lavoravo al New York aprivamo a Pasqua, facevo giovedì, venerdì, sabato e domenica. E da giugno a metà settembre tutte le sere. Fisicamente era davvero provante. Io prendevo l’autobus, non avevo ancora la macchina, andavo al New York quand’era chiuso durante l’inverno per esercitarmi. Ho imparato così a mixare.
PW: Infatti mi chiedevo, il beat matching per te è sempre stato fondamentale, la tecnica è estremamente importante, giusto?
P: Importantissimo per carità, ma sullo stesso piano ci metto la capacità di far prendere ad un brano la tua faccia, nel senso che quando qualcuno lo sente pensa solo a te e non ad un altro DJ. Ci metto il feeling che riesci a creare con il pubblico. Ci sono DJ meno dotati tecnicamente che però creano un ambiente difficilmente imitabile. Quelli di metà e fine anni ’70 erano i primi anni in cui il DJ faceva davvero il mixaggio. Mio fratello ha nove anni più di me, ha fatto il DJ per una decina d’anni, ma era uno speaker, faceva il DJ da locale estivo, solo negli ultimi tempi provava ad accennare il mixaggio perché la Baia Degli Angeli aveva portato questi DJ americani. E da lì hanno poi iniziato Baldelli e Mozart, almeno qui in zona.
Anche Bologna aveva un suo personaggio storico: Miki del Ciack, con un percorso musicale importante e innovativo per l’epoca; per motivi anagrafici non sono mai riuscito ad ascoltarlo, ma ne sentivo parlare da quelli che per me erano i grandi.
PW: Baldelli è più vecchio di te?
P: Sì mi pare di una decina d’anni.
PW: Con lui hai lavorato?
P: Sì, andavo come guest al Cosmic quando lui era resident. E nell’85 ha fatto la stagione della Mecca con me, da giugno a settembre. Si era portato il suo impianto da casa, lui suonava solo con i suoi giradischi, tecnicamente era preparatissimo. Io invece improvvisavo sempre, tuttora faccio così. Non posso pensare di arrivare con un programma prestabilito e poi rendermi conto puntualmente che la situazione è diversa da come l’avevo pensata.
Chiaramente con un filo logico rispetto a quale musica mi va di suonare. Magari faccio qualche brano dub, e da lì non posso passare a un brasiliano, quindi opto per le percussioni più elettroniche, poi percussioni acustiche e lì entro con un brasiliano: questa è un’idea di sequenza. Per me è fondamentale. E analogamente cerco di dare un senso alla serata.
PW: Spiegami meglio cosa intendi.
P: Per me la serata deve partire con cose ambient. Se inizia ad arrivar gente non deve esserci l’ansia di riempire subito la pista. Chi arriva da fuori e sente già la musica che batte se entra con la pista vuota entra in maniera sbagliata nel locale. Conviene lasciar la pista vuota mezz’ora per poi costruire la serata proponendo quello che vuoi. Il DJ ansioso spara una sorta di cartuccera di hit parade di un genere, condizionando automaticamente tutta la serata a seguire quella linea.
PW: Fammi un esempio di serata tipo alla Mecca.
P: Si partiva molto lentamente, a crescere. Passavo due o tre generi diversi, partendo da materiale elettronico. Le cose brasiliane o comunque i brani afro molto veloci li mettevo sul tardi, per poi magari tornare alla fine sul reggae e gradualmente decrescere. Sempre cambiando generi, cosa fondamentale per me, per non essere monotoni. Questo per me era dare un senso alla serata. Se dovessi sentire afro per tre ore non riuscirei… come faceva lo Zimba di Milano che faceva anche lo spettacolo afro, con cucina e musica africana.
PW: A tema?!
P: Sì, quello era un locale afro vero al 100%. Quando hanno aperto a Reggio Emilia e mi invitarono a suonare gli dissi “guarda che non faccio afro”. E loro mi risposero “Sì sì, sappiamo tutto, ma vorremmo fare una cosa un po’ particolare”.
PW: Nel pubblico della Mecca c’erano anche ragazzi e ragazze africani?
P: Sì, soprattutto i primi anni. Mi ricordo un gruppo di nigeriani, quando mettevo Fela impazzivano, facevano balli di gruppo – si prendevano mezza pista. Non erano tantissimi, chiaramente la maggioranza era pubblico locale. Ma ricordo che conoscevano alcuni brani che mettevo, probabilmente per loro erano brani di musica popolare. Alla fine a me piaceva suonare musica popolare, andare alle radici. Quando chiedevo i dischi a mio padre in Brasile, le prime volte mi portava del rock o hip pop brasiliano, dicendo che quella era la musica del momento, “il resto” mi diceva “è come il liscio”. Io rispondevo allora che doveva portarmi il liscio!
PW: A proposito: brani popolari italiani li suonavi? Davvero, un pezzo di liscio?
P: Il liscio non l’ho mai suonato ovviamente. Però suonavo i Mau Mau, un gruppo di Torino, i cui testi erano in dialetto torinese. I Sud Sound System, in particolare Fuecu, quando andava il ragamuffin; di certi pezzi magari usavo solo la versione dub. Il primo pezzo di una cassetta dell’82 o ’83 è la versione strumentale di Lei Verrà di Mango. In un’altra dell’84 c’è un brano di Fabrizio De André, tratto da un LP in dialetto genovese: se non ti dicessi che è De André penseresti che è un cantante brasiliano.
Qualche anno fa sono andato al festival degli hippy a Santarcangelo, sento un brano… chiedo al tecnico audio “chi è questo?” “Questo è un gruppo siciliano che era qui l’anno scorso.” Mi son fatto dare il cd, ho sistemato un po’ il brano e poi ho iniziato a suonarlo. Tutti erano convinti fosse un brano indiano o maghrebino. Questa per me è ricerca musicale: non fermarsi a quello che ti offre il mercato.
PW: Quindi editi alcuni brani?
P: Sì, per renderli più ballabili.
PW: Cerchi sempre cose nuove, tuttora?
P: Certo, la musica nuova è il mio obiettivo da sempre. La base che mi ha permesso di continuare a fare il DJ e creare nuovi stimoli e procurarmi emozioni. La sfida di proporre e far ballare brani che erano scommesse. Restando sempre con le radici ben ancorate, cambiare genere in base al momento presente. Senza dimenticare ovviamente il mio passato e da dove arrivo.
Le critiche ci sono sempre state, parlo di quelle che servono solo a condizionarti negativamente e limitano la creatività. In fondo nel 1984 c’era già chi si lamentava che la musica non era quella del 1980; idem nel ’90 e diceva che non era più quella del 1986. Se avessi ascoltato quelle critiche probabilmente oggi non sarei qui oppure sarei tornato dopo un lungo silenzio riproponendo la musica del passato. L’importante è saper fare ricerca.
Sono scappato da certi locali che oggi dicono di fare “afro nuova” che a me sembrano il festival della banalità. Se devo sentire quello che secondo loro sono novità afro – ovvero trap brutta o moombahton, oppure le tre canzoni latine di Joy Santos remixate in duemila versioni… mi può anche star bene, ma fino a un certo punto: ho fatto reggae dub, reggae classico, il ragamuffin, anche qualcosa di reggaeton nei primi duemila (che non era il reggaeton che si sente adesso) – ma la banalità non mi è mai interessata. Ho sempre usato delle cose che mi rendessero alternativo. Volevo che il pubblico dicesse “vado a ballare in quella discoteca perché quella musica la trovo solo lì.”